Ci sono circa 90 campioni del mondo nella storia del pugilato, in quella che è la sua classe regina: i pesi massimi; ma perché quelli di cui tutti si ricordano sono soltanto una decina se non di meno?
Semplice, perché questi talenti non hanno solo infiammato il pubblico con le loro performances storiche, ma hanno anche rappresentato un simbolo per le persone, qualcosa in cui si potessero identificare. E uno dei campioni che può rappresentare al meglio questa categoria è senza dubbio Joe Louis.
Louis nacque a Lafayette il 13 Maggio 1914, da genitori afro-americani, e poco si sa della sua infanzia trascorsa tra le campagne. Dopo vari tormenti si trasferì con sua madre Lillie e i suoi sette fratelli a Detroit, prendendo parte alla grande migrazione afroamericana.
Joe qui inizia il pugilato, nascondendo i guantoni in una custodia di violino, per non alimentare ulteriormente le preoccupazioni della già scossa madre, turbata a causa di passate violenze subite da parte del Ku Klux Klan.
Diventa dilettante all’età di 17 anni, sbaragliando ogni singolo avversario che incrociasse con lui i guantoni sul ring. Questa incredibile serie di vittorie lo fece passare nel professionismo, dove continuò a vincere e a sopraffare gli sfidanti, la maggior parte dei quali battuti per KO.
La popolarità di Louis crebbe particolarmente tra gli afro-americani, che lo vedevano come il simbolo della rivalsa dei propri diritti. Sembrava impossibile, quasi pericoloso, per quei tempi, che un ragazzo di colore potesse conquistare risultati tanto importanti, e avere un impatto mediatico così “rumoroso”.
La scalata di Joe verso il titolo si interruppe nel 1936 contro il tedesco Max Schmeling, che vinse l’incontro per KO.
Ma, al contrario di come ci si potrebbe aspettare, ad applaudire alla vittoria del tedesco non fu solo il pubblico che lo favoriva, ma anche il pubblico americano, che gioiva per la sconfitta di un uomo che sembrava invincibile e che aveva come peccato solo quello di essere di colore.
Il Brown Bomber non si perse d’animo e riprese a lavorare duramente, arrivando a conquistare il titolo dei Massimi l’anno successivo contro Braddock.
Louis, però, sfoggiando la sua forte personalità da atleta avvezzo alle difficoltà della vita, sfidò pubblicamente Schmeling ad un re-match, solo allora infatti si sarebbe potuto ritenere un vero campione.
In breve tempo divenne l’incontro del secolo, e forse tra tutti quelli che si sono disputati è quello che calza meglio nella sua definizione, perché determina appieno l’epoca in cui si è verificato: le porte della seconda Guerra Mondiale.
Schmeling, che non si è mai associato al partito nazista, partì comunque dalla Germania con la benedizione di Hitler; e Louis si incontrò con il presidente americano Roosevelt, che gli disse testuali parole: ” Joe abbiamo tutti bisogno di muscoli come i tuoi per battere la Germania”.
Il match, ormai diventato un fronte bellico, si concluse al primo round, vinto da Joe Louis con un brutale KO.
Joe divenne il primo vero campione nero ad essere acclamato anche dal pubblico bianco in quell’occasione, diventando un simbolo per tutti, rompendo le barriere del razzismo, e venendo proclamato quindi “The people champ.”
Louis continuò a scrivere la storia con 25 difese al titolo consecutive di cui 22 KO, record imbattuto ancora oggi, e continuando ad accrescere la sua popolarità.
Gli ultimi anni della sua vita, che lo portarono alla morte per arresto cardiaco nel 1981, furono caratterizzati da un tragico declino psicologico, e in questi momenti Louis poté contare sul supporto dell’ex rivale Schmeling, che si era trasferito in America e gli era diventato amico, dimostrando come talvolta gli uomini si scontrino a causa di forze più grandi di loro, come se fossero pedine di un gioco.
Poco importa se la fine di Joe Louis non è stata tanto dignitosa quanto avrebbe meritato, forse perché nel mondo sportivo il “dopo” ha sempre minore importanza, ma soprattutto perché l’immortalità, Louis, se la era già guadagnata.